Un giudizio critico sul testo A colloquio col padre: iI sogno di Nazario Pardini
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Quasi un poemetto, per lunghezza e intensità espressive, un canto suggestivo e trepidante quello che ci porge Nazario Pardini evocando alla memoria il padre, (scomparso) che si rimodula al ricordo con un frammisto d’immagini che ne svegliano la magia e la dolcezza di un sogno: “Che lucore! Era simile il cielo a quei mattini in cui andavamo ad erpicare il profumo di terra. Era mio padre.” Un amarcord fortissimo per intensità e pathos. Guizzi giovanili ritornano alla mente quasi ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero e della fantasia con un intenso e persistente aroma di terra, di pane fritto, di sentori erbali, di aromi estivi. Vi è l’anima che riposa in quegli anfratti perduti del sogno giovanile a rinnovare ipotesi di esistenza “oltre” vi sono sprazzi di luce, d’intuizione fortissima, quasi palpabile in atmosfere e momenti indelebili che affollano e sovrastano - l’altra dimensione - quella “onirica” in cui tutto è ovattato e, combaciano alla perfezione la vita e la morte. L’afflato è fortissimo, quasi “si apre un cielo di luce biancicante” un processo che si aggiudica lo stupore del primo mattino, in una fittissima rete di minuzie, di dettagli, di “fulvi girasoli” che solo le anime consanguinee conoscono. Ecco, vorrei soffermarmi su questo legame di sangue che costituisce il punto fermo di Pardini, un atteggiamento che la poesia risuscita nel suo farsi più umana ed efficace l’assonanza tra sangue e carne, tra realtà e sogno. Vi sono elegie semantiche che non passano inosservate, vi è la visione nostalgica di una vita in transito, ma non perduta del tutto. In questo dialogo col padre, Pardini mostra tutta la sua umanità con la gioia del “fanciullino” di pascoliana memoria. Una poesia bellissima, struggente che andrebbe portata nelle scuole e studiata come si conviene ai testi del Pascoli o di altri autori del passato.
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Quasi un poemetto, per lunghezza e intensità espressive, un canto suggestivo e trepidante quello che ci porge Nazario Pardini evocando alla memoria il padre, (scomparso) che si rimodula al ricordo con un frammisto d’immagini che ne svegliano la magia e la dolcezza di un sogno: “Che lucore! Era simile il cielo a quei mattini in cui andavamo ad erpicare il profumo di terra. Era mio padre.” Un amarcord fortissimo per intensità e pathos. Guizzi giovanili ritornano alla mente quasi ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero e della fantasia con un intenso e persistente aroma di terra, di pane fritto, di sentori erbali, di aromi estivi. Vi è l’anima che riposa in quegli anfratti perduti del sogno giovanile a rinnovare ipotesi di esistenza “oltre” vi sono sprazzi di luce, d’intuizione fortissima, quasi palpabile in atmosfere e momenti indelebili che affollano e sovrastano - l’altra dimensione - quella “onirica” in cui tutto è ovattato e, combaciano alla perfezione la vita e la morte. L’afflato è fortissimo, quasi “si apre un cielo di luce biancicante” un processo che si aggiudica lo stupore del primo mattino, in una fittissima rete di minuzie, di dettagli, di “fulvi girasoli” che solo le anime consanguinee conoscono. Ecco, vorrei soffermarmi su questo legame di sangue che costituisce il punto fermo di Pardini, un atteggiamento che la poesia risuscita nel suo farsi più umana ed efficace l’assonanza tra sangue e carne, tra realtà e sogno. Vi sono elegie semantiche che non passano inosservate, vi è la visione nostalgica di una vita in transito, ma non perduta del tutto. In questo dialogo col padre, Pardini mostra tutta la sua umanità con la gioia del “fanciullino” di pascoliana memoria. Una poesia bellissima, struggente che andrebbe portata nelle scuole e studiata come si conviene ai testi del Pascoli o di altri autori del passato.