Ellittiche stelle di Ninnj Di Stefano Busà,
vincitrice del Premio Il Portone di Pisa, 2013
(a cura di Nazario Pardini)
È così che si conquistano le vette più alte con scalate di dolore e di affanni: Un viaggio senza ritorno, una storia che porta due parentesi tra un poco e l’altro della vita. Una distanza fra asintoti e tangenze sempre più lontani, linee d’ombra. Scrivere sulla poesia di Ninnj Di Stefano Busà significa raccontare la sua vita in tutte le occasioni esistenziali. Una vita donata, di tutto punto, all’arte della parola, alla ricerca continua di intarsi e nessi che convalidino il grande patrimonio di un’esistenza. La vita in tutta la sua pienezza e pluralità, come apertura all’umano in quanto tale, all’umano che cresce col dolore, la gioia, l’atto onirico, immaginifico, e, soprattutto, con la realtà che lo circonda e l’assale; a quell’umano che si misura, in modo perpetuo, con la luce e il buio, con l’ombra ed i suoi suoni, coi fatti ed i loro perché, per tirare, alfine, un inquieto consuntivo. “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare” (Stearns Eliot). Scrivere, quindi, della poesia di questa importante autrice significa raccontare una storia che fa suoi passato, presente e futuro. Che fa sue le irrisolte e irrisolvibili questioni umane; i tentativi di ridurre quelle distanze che ci separano dal tutto. Ed è per questo che nei suoi versi ognuno potrà leggere se stesso, quella parte di sé ancora da scoprire. Ha scritto Marcel Proust in Il tempo ritrovato: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. E la Busà ha fatto di ogni momento del suo esserci una pagina della sua avventura, magnifica avventura umano-letteraria. Le piccole cose, i grandi avvenimenti, le fughe del pensiero, i ritorni alla sua terra, alle sue origini, la forza evocativa del memoriale, la filosofia di una realtà spietata, quella della piena coscienza della caducità del tempo - pur sempre costruttiva sulla visione della sacralità della vita -, sono alla base del suo percorso artistico: Ancora un altro giorno cede, se ne va, e il nostro viaggio si fa breve, se un’altra estate chiama, è tempo di ricordi, di ellittiche stelle (pp. 5). Ellittiche stelle. Stelle come sogno, come meditazione, come richiamo di memorie, come azzardo all’oltre; stelle come consuntivo; ma stelle ellittiche che nel loro simbolismo geometrico si avvicinano e si allontanano, forse come una verità che ci stimola ad una ricerca continua senza offrirci mai una soluzione definitiva. E il giorno cede, e la materia si deteriora; allora occorre affidarci allo spirito che naviga su una barca verso slarghi di azzurro, verso orizzonti che vincano le ombre nere della terra: Il tempo di guardare appena le cose, e già sfuggono, e il mondo ha uccelli di passo, ozi, cose di breve conto (pp. 6). Ed è superfluo, anche, ricorrere a nostalgie di primavere che hanno dato un sapido colore al nostro esistere, dacché: Tu affonda i piedi, spingiti oltre la nostalgia che transita veloce e incespica sulle cose, intorno ai giorni, in questa terra indifesa, che nasconde il carico dell’ora e si nutre di buio (pp. 7). La poetessa ha metabolizzato gli accadimenti; li ha tenuti in seno, tirando dei bilanci sul fatto di esistere da redde rationem, non più personali, ma totali, immensamente pieni. Ed ha alimentato ogni vicenda di un sentire fresco, oggettivo, di polisemica significanza. Non scade, di certo, mai in un memoriale becero e languido di bassa lega; ma ogni fatto che è stato è una solida pietra su cui erigere castelli di verità sofferte e sofferenti, ma che contengano il succo delle problematicità della vita di tutti noi; che contengano gli approdi insicuri di una navigazione difficile, anche tempestosa, che ha fatto dubitare, gridare, dopo tappe di dolore; ma pur sempre approdi di serenità, anche se ne presuppongono altri come il pensiero richiede. Come richiede la continua instabilità della condizione umana. E ridare alla pagina la storia di questa navigazione “trasfigurata” elioticamente, e ingigantita, magari, come succede quando si traducono in immagini i dolori e i perigli, significa fare poesia sana, buona che contribuisce a che ognuno di noi, leggendola, dialoghi con se stesso sulla imperscrutabilità del tempo. Forse la realtà non è più la stessa: assume contorni diversi, poetici, crocianamente alimentati di anima e di spirito, di una tensione orfica , anche, dai toni epico-lirici. Ed è lì che il costrutto assume una valenza architettonica di contenimento alle esplosioni sentimentali di cui l’animo della Busà è generoso. Un costrutto robusto dove la grande portata culturale e umana della poetessa trova un’alcova sicura e di proteiforme efficacia: Questa è la sigla che ti rendo, una verità senza sconti, un passo che non arretra, affrancato dal battito del mondo (pp. 8) Una verità cruda; d’altronde il mondo è così come si presenta, ma soprattutto come si vede nella sua spietata efficacia riduttiva e nella sua forza sottrattiva. E di questo soffriamo e ci si angosciamo: un “miserere”, ma poi tornerà la neve a ricoprire il foglio: Tra distanze minime apparirà il turbinio lento delle ore, segnate da una vita sempre in forse, le minime radici saranno eutanasie di cose perse (pp. 9). C’è qui tutta la questione del fatto di nascere umani dal dicotomico volto di pascaliana natura. D’altronde lo scorrere lento delle ore ci richiama e ci sussurra, facendoci male, che il tempo passato è eutanasia di un bene che potevamo tenere più in vita, che potevamo viverlo più intensamente; e diverso, forse, sarebbe stato lo stesso ricordo. Anche perché “siamo viandanti sperduti” (Cardarelli) in questa “società liquida” (Zygmund Bauman). Ma è qui che tutte le tappe del nostro esistere si embricano indissolubilmente dando corpo ad un prodotto creativo estremamente umano e di grande fattura stilistico-emotiva. Di grande generosità espansiva coi suoi azzardi che traggono dal reale più crudo una spinta ad elevarsi oltre il recinto in cui è circoscritto il mondo umano. E anche se: E poi sarà come se tutto fosse accaduto in fretta, un porre fine al tempo, all’incenso delle stanze vuote (pp. 10). E anche se: Ora i passi sfrangiati temono le strade, si fermano al confine che separa il mondo dal balcone (pp. 11) E anche se: Non cede quella luce di settembre, muove a folate e presenta un retroattivo tempo di bilanci (pp. 12). c’è sempre un’altra voce a chiamare e a riportarci un sorriso: Poi un’altra voce chiama, è il tempo che ci assegna qualche volto familiare, pigramente ci spoglia, ci parla di un copioso andare, tra ginestre e volti senza rughe, il fondo della strada consumato dà spazio a innumeri silenzi, solo un sorriso si attacca alla vita (pp. 14). a riavvicinare la poetessa a un ricordo che vale la pena rivivere, come fase ricreativa dell’esistere, anche se l’umano è vissuto in questi versi con tale intensità da assimilare tutte le inquietudini delle sue sottrazioni. Sottrazioni che si materializzano in ore perdute, in distanze incolmabili, in pelle che invecchia, in corse di breve conto, in un seme che intatto s’agita sotto la neve, in una verità senza sconti, in un aprile che sfila veloce, in un odore acre di polvere, in un’ora che sfugge, in una Milano senza voce, o in una fatica che rincorre le stagioni. Tante metafore, tanti singhiozzi di parole che si lanciano in allusioni di grande impatto visivo. È l’altro che parla, è l’altro io della scrittrice che dice a se stessa quanto la vita sia un gioco in cui più facile è perdere che vincere. Ma qui c’è anche la forza analitica di una scrittura poetica volta a narrarci, con un realismo sconcertante, il fatto di esistere nello spazio ristretto di un soggiorno. E quel che più incide è la plurivocità di questa poesia. È quella facilità versificatoria nel predisporsi a raccogliere gli input dell’anima e renderli universali; nel ricorrere a stilemi allusivi ed a impennate iperboliche che, con la forzatura dei sintagmi, tendono ad abbracciare il tutto; ad arrivare là dove non potrebbe la semplice e comune sintassi. Sinceramente un senso di sperdimento c’è in questo mondo che sottrae valori, che ammucchia disvalori, in questo mondo il cui piedistallo si erge su una base renosa, vibratile, come il pensiero dell’esistere. Ma la Busà ha dalla sua parte una storia di grande impegno culturale, umano, sociale, e morale. Un bagaglio linguistico risultante da un raffinato gusto per l’ars dicendi. Per la vera poesia. Per quella su cui si lavora con intendimenti metricamente impostati a confermare il tanto; si lavora con quella perspicacia rielaborativa da cesellatori di combinazioni semantiche. Sono l’ardore allusivo delle sue metafore, i suoi assemblaggi lessicali, le sue intensificazioni verbali, le mani e lo spirito che si intrufolano nei versi, che si embricano nel canto per farci trasalire; per contaminare la nostra sensibilità con un reale che si snocciola verace nel corso di un poema. E se la memoria azzanna l’anima coi suoi ritorni verticali, c’è sempre un nutrimento di eccelsa levatura a che si valorizzi il ricordo e si faccia presente esso stesso, bramoso di una attualizzazione morale, temporale ed artistica. È così che si conquistano vette con scalate di dolore e di affanni. Ma vette, alfine, da dove si possono ammirare vallate di luce incorruttibile. Da dove le aperture degli orizzonti sono infinite. Sanno quasi d’eterno. Ed è a quelle aperture che la poetessa offre il suo canto dopo i naufragi di una vita: Eppure inventeremo un nuovo giorno, un’alba di rinnovato stupore al sole d’innocenza. La luce è incorruttibile stasera, inventa nuove favole, sgrana rosari e fiori abbandonati.
17/07/2013 Nazario Pardini
vincitrice del Premio Il Portone di Pisa, 2013
(a cura di Nazario Pardini)
È così che si conquistano le vette più alte con scalate di dolore e di affanni: Un viaggio senza ritorno, una storia che porta due parentesi tra un poco e l’altro della vita. Una distanza fra asintoti e tangenze sempre più lontani, linee d’ombra. Scrivere sulla poesia di Ninnj Di Stefano Busà significa raccontare la sua vita in tutte le occasioni esistenziali. Una vita donata, di tutto punto, all’arte della parola, alla ricerca continua di intarsi e nessi che convalidino il grande patrimonio di un’esistenza. La vita in tutta la sua pienezza e pluralità, come apertura all’umano in quanto tale, all’umano che cresce col dolore, la gioia, l’atto onirico, immaginifico, e, soprattutto, con la realtà che lo circonda e l’assale; a quell’umano che si misura, in modo perpetuo, con la luce e il buio, con l’ombra ed i suoi suoni, coi fatti ed i loro perché, per tirare, alfine, un inquieto consuntivo. “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare” (Stearns Eliot). Scrivere, quindi, della poesia di questa importante autrice significa raccontare una storia che fa suoi passato, presente e futuro. Che fa sue le irrisolte e irrisolvibili questioni umane; i tentativi di ridurre quelle distanze che ci separano dal tutto. Ed è per questo che nei suoi versi ognuno potrà leggere se stesso, quella parte di sé ancora da scoprire. Ha scritto Marcel Proust in Il tempo ritrovato: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. E la Busà ha fatto di ogni momento del suo esserci una pagina della sua avventura, magnifica avventura umano-letteraria. Le piccole cose, i grandi avvenimenti, le fughe del pensiero, i ritorni alla sua terra, alle sue origini, la forza evocativa del memoriale, la filosofia di una realtà spietata, quella della piena coscienza della caducità del tempo - pur sempre costruttiva sulla visione della sacralità della vita -, sono alla base del suo percorso artistico: Ancora un altro giorno cede, se ne va, e il nostro viaggio si fa breve, se un’altra estate chiama, è tempo di ricordi, di ellittiche stelle (pp. 5). Ellittiche stelle. Stelle come sogno, come meditazione, come richiamo di memorie, come azzardo all’oltre; stelle come consuntivo; ma stelle ellittiche che nel loro simbolismo geometrico si avvicinano e si allontanano, forse come una verità che ci stimola ad una ricerca continua senza offrirci mai una soluzione definitiva. E il giorno cede, e la materia si deteriora; allora occorre affidarci allo spirito che naviga su una barca verso slarghi di azzurro, verso orizzonti che vincano le ombre nere della terra: Il tempo di guardare appena le cose, e già sfuggono, e il mondo ha uccelli di passo, ozi, cose di breve conto (pp. 6). Ed è superfluo, anche, ricorrere a nostalgie di primavere che hanno dato un sapido colore al nostro esistere, dacché: Tu affonda i piedi, spingiti oltre la nostalgia che transita veloce e incespica sulle cose, intorno ai giorni, in questa terra indifesa, che nasconde il carico dell’ora e si nutre di buio (pp. 7). La poetessa ha metabolizzato gli accadimenti; li ha tenuti in seno, tirando dei bilanci sul fatto di esistere da redde rationem, non più personali, ma totali, immensamente pieni. Ed ha alimentato ogni vicenda di un sentire fresco, oggettivo, di polisemica significanza. Non scade, di certo, mai in un memoriale becero e languido di bassa lega; ma ogni fatto che è stato è una solida pietra su cui erigere castelli di verità sofferte e sofferenti, ma che contengano il succo delle problematicità della vita di tutti noi; che contengano gli approdi insicuri di una navigazione difficile, anche tempestosa, che ha fatto dubitare, gridare, dopo tappe di dolore; ma pur sempre approdi di serenità, anche se ne presuppongono altri come il pensiero richiede. Come richiede la continua instabilità della condizione umana. E ridare alla pagina la storia di questa navigazione “trasfigurata” elioticamente, e ingigantita, magari, come succede quando si traducono in immagini i dolori e i perigli, significa fare poesia sana, buona che contribuisce a che ognuno di noi, leggendola, dialoghi con se stesso sulla imperscrutabilità del tempo. Forse la realtà non è più la stessa: assume contorni diversi, poetici, crocianamente alimentati di anima e di spirito, di una tensione orfica , anche, dai toni epico-lirici. Ed è lì che il costrutto assume una valenza architettonica di contenimento alle esplosioni sentimentali di cui l’animo della Busà è generoso. Un costrutto robusto dove la grande portata culturale e umana della poetessa trova un’alcova sicura e di proteiforme efficacia: Questa è la sigla che ti rendo, una verità senza sconti, un passo che non arretra, affrancato dal battito del mondo (pp. 8) Una verità cruda; d’altronde il mondo è così come si presenta, ma soprattutto come si vede nella sua spietata efficacia riduttiva e nella sua forza sottrattiva. E di questo soffriamo e ci si angosciamo: un “miserere”, ma poi tornerà la neve a ricoprire il foglio: Tra distanze minime apparirà il turbinio lento delle ore, segnate da una vita sempre in forse, le minime radici saranno eutanasie di cose perse (pp. 9). C’è qui tutta la questione del fatto di nascere umani dal dicotomico volto di pascaliana natura. D’altronde lo scorrere lento delle ore ci richiama e ci sussurra, facendoci male, che il tempo passato è eutanasia di un bene che potevamo tenere più in vita, che potevamo viverlo più intensamente; e diverso, forse, sarebbe stato lo stesso ricordo. Anche perché “siamo viandanti sperduti” (Cardarelli) in questa “società liquida” (Zygmund Bauman). Ma è qui che tutte le tappe del nostro esistere si embricano indissolubilmente dando corpo ad un prodotto creativo estremamente umano e di grande fattura stilistico-emotiva. Di grande generosità espansiva coi suoi azzardi che traggono dal reale più crudo una spinta ad elevarsi oltre il recinto in cui è circoscritto il mondo umano. E anche se: E poi sarà come se tutto fosse accaduto in fretta, un porre fine al tempo, all’incenso delle stanze vuote (pp. 10). E anche se: Ora i passi sfrangiati temono le strade, si fermano al confine che separa il mondo dal balcone (pp. 11) E anche se: Non cede quella luce di settembre, muove a folate e presenta un retroattivo tempo di bilanci (pp. 12). c’è sempre un’altra voce a chiamare e a riportarci un sorriso: Poi un’altra voce chiama, è il tempo che ci assegna qualche volto familiare, pigramente ci spoglia, ci parla di un copioso andare, tra ginestre e volti senza rughe, il fondo della strada consumato dà spazio a innumeri silenzi, solo un sorriso si attacca alla vita (pp. 14). a riavvicinare la poetessa a un ricordo che vale la pena rivivere, come fase ricreativa dell’esistere, anche se l’umano è vissuto in questi versi con tale intensità da assimilare tutte le inquietudini delle sue sottrazioni. Sottrazioni che si materializzano in ore perdute, in distanze incolmabili, in pelle che invecchia, in corse di breve conto, in un seme che intatto s’agita sotto la neve, in una verità senza sconti, in un aprile che sfila veloce, in un odore acre di polvere, in un’ora che sfugge, in una Milano senza voce, o in una fatica che rincorre le stagioni. Tante metafore, tanti singhiozzi di parole che si lanciano in allusioni di grande impatto visivo. È l’altro che parla, è l’altro io della scrittrice che dice a se stessa quanto la vita sia un gioco in cui più facile è perdere che vincere. Ma qui c’è anche la forza analitica di una scrittura poetica volta a narrarci, con un realismo sconcertante, il fatto di esistere nello spazio ristretto di un soggiorno. E quel che più incide è la plurivocità di questa poesia. È quella facilità versificatoria nel predisporsi a raccogliere gli input dell’anima e renderli universali; nel ricorrere a stilemi allusivi ed a impennate iperboliche che, con la forzatura dei sintagmi, tendono ad abbracciare il tutto; ad arrivare là dove non potrebbe la semplice e comune sintassi. Sinceramente un senso di sperdimento c’è in questo mondo che sottrae valori, che ammucchia disvalori, in questo mondo il cui piedistallo si erge su una base renosa, vibratile, come il pensiero dell’esistere. Ma la Busà ha dalla sua parte una storia di grande impegno culturale, umano, sociale, e morale. Un bagaglio linguistico risultante da un raffinato gusto per l’ars dicendi. Per la vera poesia. Per quella su cui si lavora con intendimenti metricamente impostati a confermare il tanto; si lavora con quella perspicacia rielaborativa da cesellatori di combinazioni semantiche. Sono l’ardore allusivo delle sue metafore, i suoi assemblaggi lessicali, le sue intensificazioni verbali, le mani e lo spirito che si intrufolano nei versi, che si embricano nel canto per farci trasalire; per contaminare la nostra sensibilità con un reale che si snocciola verace nel corso di un poema. E se la memoria azzanna l’anima coi suoi ritorni verticali, c’è sempre un nutrimento di eccelsa levatura a che si valorizzi il ricordo e si faccia presente esso stesso, bramoso di una attualizzazione morale, temporale ed artistica. È così che si conquistano vette con scalate di dolore e di affanni. Ma vette, alfine, da dove si possono ammirare vallate di luce incorruttibile. Da dove le aperture degli orizzonti sono infinite. Sanno quasi d’eterno. Ed è a quelle aperture che la poetessa offre il suo canto dopo i naufragi di una vita: Eppure inventeremo un nuovo giorno, un’alba di rinnovato stupore al sole d’innocenza. La luce è incorruttibile stasera, inventa nuove favole, sgrana rosari e fiori abbandonati.
17/07/2013 Nazario Pardini