L’ASSENZA DI ELENA NELLA SILLOGE: IL SENSO DELLA POSSIBILITA’
di Antonio Spagnuolo, Ed. Kairos
recensione a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Il senso della possibilità, la nuova silloge di Antonio Spagnuolo, ci lascia smarriti, tale e tanta è l’irrisolta, feroce contraddizione tra il risultato emotivo del “prima” e del “dopo” di Elena, tra l’essere stato e il dover essere, tra la carne e il sangue di ieri e, l’accerchiamento, il cambiamento spersonalizzante, smarrito dovuti all’assenza della donna amata. Ogni dettaglio di emozione, fatto di pensiero naturale, di rasserenante ipotesi giunge immediatamente al suo discrimine, dove tra la fuga e l’addio, tra il tempo diacronico e sincronico, tra antinomie, segni fuggevoli, radici mnemoniche, abbandoni...oggetti inerti trascorrenti, si ricongiungono le ombre di un viaggio solitario, ad ogni ora, riaffiora quasi inumato dalla polvere e dall’impellenza retroattiva, un nuovo giorno catapultato nei bisogni asfittici, esangui di una solitudine, che immobilizza il sentimento e lo istruisce nel percorso obliquo, inconcludente della materia. Ogni memoria soggiace alla finitudine, al segmento nostalgico che segue ogni tratto, di questo itinerario avvertito dall’autore come un affronto, un maldestro colpo del destino che lo ha privato della sua compagna. Spagnuolo in questa nuova raccolta distingue in modo asintotico, il suo “io” ma vagheggia come uno scolaretto al suo primo appuntamento sugli sprimentalismi linguistici che, della poesia fanno una campionatura piuttosto vivace e abbagliata, talché si potrebbe definire anche abbagliante di visioni, di ricordi. La fascinazione della parola ricrea un modello unico e irripetibile di sospensioni dialettiche che lasciano il lettore disorientato e attonito per le continue bellezze e sinestesie e metafore che la nostalgia della donna amata sa implacabilmente ispirargli. La solitudine è palpabile: una forza che procrastina la sua vera morte in un’atmosfera che non è mai elaborazione e disincanto, ma consapevole arrembaggio ad un porto mai raggiunto, orgia di necrosi, a metà tra la vita e il suo contrario, quasi mobile ogni ancoraggio ogni richiamo all’estinta risulta perennemente in bilico, senza una via d’uscita, in ogni caso sempre in sospensione. Molte immagini retroattive ne presagiscono una indagine accurata, pignola, uno scavo tra le ombre che riflettono ora più che mai il pensiero della moglie adorata. I limiti sono quelli di una prigione, i rilievi danno per scontato una fuga, ma dove? Quando? Tra notti asimmetriche e memorie affrante, il suo sé ricostruisce itinerari di nevrosi, risucchi d’illusioni, ferite sempre aperte, che deformano talune allucinazioni memoriali abbandonandosi alla nostalgia e sprofondandovi con la fantasia come in una tensione difforme tra la realtà e il sogno, tra l’immaginifico e il vulnus che non argina mai il vorticoso malessere, la inarrestabile ricerca dell’amata: “inseguo le tue ombre quotidiane/ per rubarti un sorriso” oppure: “Scatta improvvisa la malinconia/ che graffia, che morde, che inasprisce/ le braccia per divenire abbandono.” (pag. 84) Tutta la sezione dedicata ad Elena è un perseverante e avvolgente sudario per ricordi incontrastati. una reverie “della docile materia, plasmata intorno ai volti ancora giovanili”. Il poeta vi accumula una tensione che si compenetra empaticamente con “l’altra” in una psicoanalisi di sopravvivenza che rimuova il vuoto dell’assenza, tutte le categorie perdute: felicità, presenze discrete, dolcissimi abbandoni in un dispiegamento di simmetrie palpabili, di interferenze che sono continuamente espressione del suo disagio, rivelazione di una coesistenza immaginifica, tra il visibile e l’invisibile, fin quasi ad esasperare la dimensione dell’illimite, l’appartenenza e la commistione inconsce con l’oltre, di cui si fa carico il dolore: “ora forma dormiente / sei simbolo del nulla/.../e ricordo/ quando scrivevo per te versi gioiosi.” (pag. 97) Il cielo ha voragini inconsulte,/ quasi le vene spaccano il sudario che riprova lente parole/.../ al confine dei nostri frantumi. (pag.99). Vi è in quest’opera la forza prorompente di un guado, che cerca un attraversamento dello Stige, verso l’altrove, una inconscia eppure lucida pulsione di trasparenze, contraddittorie che vìolano le necessarie formule di rito, la caducità dell’istante, l’imperfezione della morte: si fa forte questa poesia di una levità che, pur, nel baratro provocato dall’addio, percuote e plasma, come in un canto folle d’amore, le logiche della materia e ne fa arte della parola, linguismo per scalfirne infine il suo mistero, forse alla ricerca dell’assoluto di quella trascendenza che è comunione di bene, vincolo di luce perenne, nell’indistinto dello disavventura incorporea e dell’autoanalisi di ogni azzardo.
di Antonio Spagnuolo, Ed. Kairos
recensione a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Il senso della possibilità, la nuova silloge di Antonio Spagnuolo, ci lascia smarriti, tale e tanta è l’irrisolta, feroce contraddizione tra il risultato emotivo del “prima” e del “dopo” di Elena, tra l’essere stato e il dover essere, tra la carne e il sangue di ieri e, l’accerchiamento, il cambiamento spersonalizzante, smarrito dovuti all’assenza della donna amata. Ogni dettaglio di emozione, fatto di pensiero naturale, di rasserenante ipotesi giunge immediatamente al suo discrimine, dove tra la fuga e l’addio, tra il tempo diacronico e sincronico, tra antinomie, segni fuggevoli, radici mnemoniche, abbandoni...oggetti inerti trascorrenti, si ricongiungono le ombre di un viaggio solitario, ad ogni ora, riaffiora quasi inumato dalla polvere e dall’impellenza retroattiva, un nuovo giorno catapultato nei bisogni asfittici, esangui di una solitudine, che immobilizza il sentimento e lo istruisce nel percorso obliquo, inconcludente della materia. Ogni memoria soggiace alla finitudine, al segmento nostalgico che segue ogni tratto, di questo itinerario avvertito dall’autore come un affronto, un maldestro colpo del destino che lo ha privato della sua compagna. Spagnuolo in questa nuova raccolta distingue in modo asintotico, il suo “io” ma vagheggia come uno scolaretto al suo primo appuntamento sugli sprimentalismi linguistici che, della poesia fanno una campionatura piuttosto vivace e abbagliata, talché si potrebbe definire anche abbagliante di visioni, di ricordi. La fascinazione della parola ricrea un modello unico e irripetibile di sospensioni dialettiche che lasciano il lettore disorientato e attonito per le continue bellezze e sinestesie e metafore che la nostalgia della donna amata sa implacabilmente ispirargli. La solitudine è palpabile: una forza che procrastina la sua vera morte in un’atmosfera che non è mai elaborazione e disincanto, ma consapevole arrembaggio ad un porto mai raggiunto, orgia di necrosi, a metà tra la vita e il suo contrario, quasi mobile ogni ancoraggio ogni richiamo all’estinta risulta perennemente in bilico, senza una via d’uscita, in ogni caso sempre in sospensione. Molte immagini retroattive ne presagiscono una indagine accurata, pignola, uno scavo tra le ombre che riflettono ora più che mai il pensiero della moglie adorata. I limiti sono quelli di una prigione, i rilievi danno per scontato una fuga, ma dove? Quando? Tra notti asimmetriche e memorie affrante, il suo sé ricostruisce itinerari di nevrosi, risucchi d’illusioni, ferite sempre aperte, che deformano talune allucinazioni memoriali abbandonandosi alla nostalgia e sprofondandovi con la fantasia come in una tensione difforme tra la realtà e il sogno, tra l’immaginifico e il vulnus che non argina mai il vorticoso malessere, la inarrestabile ricerca dell’amata: “inseguo le tue ombre quotidiane/ per rubarti un sorriso” oppure: “Scatta improvvisa la malinconia/ che graffia, che morde, che inasprisce/ le braccia per divenire abbandono.” (pag. 84) Tutta la sezione dedicata ad Elena è un perseverante e avvolgente sudario per ricordi incontrastati. una reverie “della docile materia, plasmata intorno ai volti ancora giovanili”. Il poeta vi accumula una tensione che si compenetra empaticamente con “l’altra” in una psicoanalisi di sopravvivenza che rimuova il vuoto dell’assenza, tutte le categorie perdute: felicità, presenze discrete, dolcissimi abbandoni in un dispiegamento di simmetrie palpabili, di interferenze che sono continuamente espressione del suo disagio, rivelazione di una coesistenza immaginifica, tra il visibile e l’invisibile, fin quasi ad esasperare la dimensione dell’illimite, l’appartenenza e la commistione inconsce con l’oltre, di cui si fa carico il dolore: “ora forma dormiente / sei simbolo del nulla/.../e ricordo/ quando scrivevo per te versi gioiosi.” (pag. 97) Il cielo ha voragini inconsulte,/ quasi le vene spaccano il sudario che riprova lente parole/.../ al confine dei nostri frantumi. (pag.99). Vi è in quest’opera la forza prorompente di un guado, che cerca un attraversamento dello Stige, verso l’altrove, una inconscia eppure lucida pulsione di trasparenze, contraddittorie che vìolano le necessarie formule di rito, la caducità dell’istante, l’imperfezione della morte: si fa forte questa poesia di una levità che, pur, nel baratro provocato dall’addio, percuote e plasma, come in un canto folle d’amore, le logiche della materia e ne fa arte della parola, linguismo per scalfirne infine il suo mistero, forse alla ricerca dell’assoluto di quella trascendenza che è comunione di bene, vincolo di luce perenne, nell’indistinto dello disavventura incorporea e dell’autoanalisi di ogni azzardo.