LA POESIA DI FRANCO CAMPEGIANI
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Si evidenzia un incoercibile malessere che è il movente motivazionale di tutta la raccolta. Franco Campegiani in questa recente silloge affonda nei meandri di un ego che è riduttivo e misero in un’epoca di grandi clangori, di assenze, di defezioni e di irredimibili colpe: un mondo, il nostro, che è il residuale responso di una teoria esistenziale portata alle sue estreme conseguenze, e dunque, a disconoscere il valore intrinseco della valorizzazione umana a fronte della sua materia inerte, dove i significati più alti dello spirito sono banditi, emarginati, quasi esclusi da una connotazione venefica di “morale”: contraddittoria, falsa, ipocrita e vanagloriosa; che rispecchia sempre più la fragilità e il nichilismo delle forze messe in campo. Attraverso un excursus sillogico di grande impatto, Franco Campegiani mostra il malessere di questo moderno asservimento alle forze conflittuali, la primordiale intolleranza di Caino e Abele, entrambi vittime, di un impianto emotivo-sentimentale già manchevole fin dagli esordi, dove i legami di sangue non hanno avuto condivisione e senso, e dove l’uomo torna ad essere “homo homini lupus”. La trama e la tessitura umana si sono consumate ulteriormente nel tempo, e l’uomo del terzo millennio attanagliato dalla morsa del suo stesso male torna ad essere un primitivo disconoscendo quelle forme progressiste che lo spingono ad un egocentrismo senza remore: “Non implorare,/ non imprecare ancora7 questa santa diabolica, / gloriosa e oscena civiltà. /lava le tue ferite/ con la tua acqua sorgiva/ e ti riscatterai.” (Civiltà pirata).. Vi è nel mondo interiore di Franco Campegiani, il senso del rifiuto a voler impersonare un mondo siffatto, dove tutto è oscuramento di significati, azzeramento dei valori morali e idealistici dell’esistente. L’uomo di oggi è latitante da se stesso, non trova nella sacralità delle cose il punto fermo, la verità che cerca, sicché si allontana sempre più dalla realtà e vive in una dimensione di precarietà e di vanità, perché gli è impossibile connettersi con la metafisicità del suo itinere. L’uomo vagolante sulla terra, ha bisogno di spiritualità, di valori che al contempo rifiuta nettamente. E dunque si trova in una discontinuità e in una frammentazione che lo portano ad estraniarsi dalla coscienza e dalla verità: “Non farne squallide parole,/ giornali ingialliti, /comizi, manifesti,/ bla-bla-bla.”. La società moderna dal canto suo vive in una sua insufficiente parabola mistificatoria: una sorta di paralisi inesauribile che immobilizza ogni stimolo vitale alla rinascita spirituale, vive in un suo limbo opaco, fatto di sperequazioni, di contraccolpi, di incongruenze ed inganni. L’autore espone in questa sua raccolta una poesia fortemente espressiva, con una ricchezza di linguaggio che rasenta la polemica e nello stesso tempo è tensione etica, costante interrogazione esistenziale: dove andiamo? chi siamo? dove tendiamo. Se ne evince una dimensione icastico/concettuale, le cui linee molto incisive mettono in prevalenza soprattutto la civiltà dell’uomo, disorientata dalla forza distruttrice dei suoi stessi simboli, abbandonata alla vacuità, all’ambiguità, alla ghettizzazione dei sentimenti: in continua ed estenuante contraddizione, contrassegnata da lutti, miserie e debolezze. Fa da sfondo alla silloge, un segnale di riflessione sui motivi del declino antropomorfico.“ Non può distruggere l’uomo,/ né costruire, altri che se stesso.” Nel segreto degli abissi). La poesia di Campegiani è icastica, non ha le morbide cadenze elegiache che contraddistinguono tanta vacua poesia contemporanea: dice pane al pane, ma il sentimento umano vi domina e vi si connette visibilmente, se ne intuiscono i segni, se ne evidenziano le rare e sfumate introspezioni emozionali. “da questa rossiccia morte/che dispoglia e dissolve/ le pingui vesti dell’estate,/ rinasceranno nuove albe.”. Campegiani ne adduce la colpa all’allontanamento da Dio, all’estraneità dai precetti di un itinerario morale e civile dell’uomo, nella presupponenza e arroganza di sostituirsi a Lui: “Pro tempore i diritti umani/ sono scesi dall’alto” e ancora:”giunge l’essere al tempo/ e torna all’assoluto il relativo.”. Si evince una maturità virile e composta, lontana da sentenziosità e scevra da meccanismi di difesa insostenibili. Poesie intense che rivelano la forte vena sociale del poeta, costretto a vedere sfilare il mondo verso il suo disfacimento, verso la necrosi di ogni impulso benefico volto al Bello, al Buono della vita. Lo sguardo d'insieme raffigura un genere di umanità in piena debacle, un disagio generazionale di grande dissidio con l'alter ego, combattuto tra la Storia e il mal di vivere, tra la vita e la morte nello stritolamento quotidiano votato all’intolleranza, alla conflittualità, dentro una girandola di dubbi, di incognite, di reticenze; un artificio pirotecnico di smaterializzazione e di ascesi verso domini superiori, che si proiettino in catartiche visioni, di cui si fa protagonista, ma anche pacificatore e conciliatore. In questo contesto s'inserisce l'homo novus che deve fare i conti con la solitudine, con i contraccolpi, le inadeguatezze della vicenda umana. depauperata da ogni riferimento idealistico: ma:“Risorgeremo dalla bufera cosmica” afferma il poeta. Un linguaggio poetico chiaro e forte senza arzigogoli né sfumature oscure, che si fanno carico di voler individuare le ragioni del dissenso e farsene interprete con grande saggezza. Fa da sfondo alla raccolta una fede non urlata, ma palese, non ecclesiale nè ecumenica, ma generatrice di un pensiero dell'oltre che s'identifichi con la coscienza e il Nosthos: “E’ un fuoco di terra il mio dio...” Un canto visionario che mostra tutta la sua asciuttezza nel mettere in gioco il pensiero del bene, e tentarne l'armonia tra il terreno e il divino: “E sono io Caino, io Abele/ io l’angelo e il diavolo di me stesso”. In molti testi si ha esempio della potenza e del fascino di questa poetica. Si alternano emozioni tenere e suggestioni garbate che sconfinano in percezioni emotive molto intense:”E il vento accende il mattino/.../ s’allaga l’amore a macchia d’olio.” L'abilità del poeta sta concentrata nel suo modus espressivo, in quel suo sapiente miscelare illusioni e delusioni, in quel rapportarsi ai chiaroscuri della vita che si servono di ingredienti di contrasto per indebolire la luce che orienta verso l’alto, verso un “oltre” che è uno status coscienziale di verità che ci trascende e ci salva, come in questi bellissimi versi: “Ci sono gioie nascoste/ in questo autunno stregato.”. Milano, novembre 2011 Ninnj Di Stefano Busà
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Si evidenzia un incoercibile malessere che è il movente motivazionale di tutta la raccolta. Franco Campegiani in questa recente silloge affonda nei meandri di un ego che è riduttivo e misero in un’epoca di grandi clangori, di assenze, di defezioni e di irredimibili colpe: un mondo, il nostro, che è il residuale responso di una teoria esistenziale portata alle sue estreme conseguenze, e dunque, a disconoscere il valore intrinseco della valorizzazione umana a fronte della sua materia inerte, dove i significati più alti dello spirito sono banditi, emarginati, quasi esclusi da una connotazione venefica di “morale”: contraddittoria, falsa, ipocrita e vanagloriosa; che rispecchia sempre più la fragilità e il nichilismo delle forze messe in campo. Attraverso un excursus sillogico di grande impatto, Franco Campegiani mostra il malessere di questo moderno asservimento alle forze conflittuali, la primordiale intolleranza di Caino e Abele, entrambi vittime, di un impianto emotivo-sentimentale già manchevole fin dagli esordi, dove i legami di sangue non hanno avuto condivisione e senso, e dove l’uomo torna ad essere “homo homini lupus”. La trama e la tessitura umana si sono consumate ulteriormente nel tempo, e l’uomo del terzo millennio attanagliato dalla morsa del suo stesso male torna ad essere un primitivo disconoscendo quelle forme progressiste che lo spingono ad un egocentrismo senza remore: “Non implorare,/ non imprecare ancora7 questa santa diabolica, / gloriosa e oscena civiltà. /lava le tue ferite/ con la tua acqua sorgiva/ e ti riscatterai.” (Civiltà pirata).. Vi è nel mondo interiore di Franco Campegiani, il senso del rifiuto a voler impersonare un mondo siffatto, dove tutto è oscuramento di significati, azzeramento dei valori morali e idealistici dell’esistente. L’uomo di oggi è latitante da se stesso, non trova nella sacralità delle cose il punto fermo, la verità che cerca, sicché si allontana sempre più dalla realtà e vive in una dimensione di precarietà e di vanità, perché gli è impossibile connettersi con la metafisicità del suo itinere. L’uomo vagolante sulla terra, ha bisogno di spiritualità, di valori che al contempo rifiuta nettamente. E dunque si trova in una discontinuità e in una frammentazione che lo portano ad estraniarsi dalla coscienza e dalla verità: “Non farne squallide parole,/ giornali ingialliti, /comizi, manifesti,/ bla-bla-bla.”. La società moderna dal canto suo vive in una sua insufficiente parabola mistificatoria: una sorta di paralisi inesauribile che immobilizza ogni stimolo vitale alla rinascita spirituale, vive in un suo limbo opaco, fatto di sperequazioni, di contraccolpi, di incongruenze ed inganni. L’autore espone in questa sua raccolta una poesia fortemente espressiva, con una ricchezza di linguaggio che rasenta la polemica e nello stesso tempo è tensione etica, costante interrogazione esistenziale: dove andiamo? chi siamo? dove tendiamo. Se ne evince una dimensione icastico/concettuale, le cui linee molto incisive mettono in prevalenza soprattutto la civiltà dell’uomo, disorientata dalla forza distruttrice dei suoi stessi simboli, abbandonata alla vacuità, all’ambiguità, alla ghettizzazione dei sentimenti: in continua ed estenuante contraddizione, contrassegnata da lutti, miserie e debolezze. Fa da sfondo alla silloge, un segnale di riflessione sui motivi del declino antropomorfico.“ Non può distruggere l’uomo,/ né costruire, altri che se stesso.” Nel segreto degli abissi). La poesia di Campegiani è icastica, non ha le morbide cadenze elegiache che contraddistinguono tanta vacua poesia contemporanea: dice pane al pane, ma il sentimento umano vi domina e vi si connette visibilmente, se ne intuiscono i segni, se ne evidenziano le rare e sfumate introspezioni emozionali. “da questa rossiccia morte/che dispoglia e dissolve/ le pingui vesti dell’estate,/ rinasceranno nuove albe.”. Campegiani ne adduce la colpa all’allontanamento da Dio, all’estraneità dai precetti di un itinerario morale e civile dell’uomo, nella presupponenza e arroganza di sostituirsi a Lui: “Pro tempore i diritti umani/ sono scesi dall’alto” e ancora:”giunge l’essere al tempo/ e torna all’assoluto il relativo.”. Si evince una maturità virile e composta, lontana da sentenziosità e scevra da meccanismi di difesa insostenibili. Poesie intense che rivelano la forte vena sociale del poeta, costretto a vedere sfilare il mondo verso il suo disfacimento, verso la necrosi di ogni impulso benefico volto al Bello, al Buono della vita. Lo sguardo d'insieme raffigura un genere di umanità in piena debacle, un disagio generazionale di grande dissidio con l'alter ego, combattuto tra la Storia e il mal di vivere, tra la vita e la morte nello stritolamento quotidiano votato all’intolleranza, alla conflittualità, dentro una girandola di dubbi, di incognite, di reticenze; un artificio pirotecnico di smaterializzazione e di ascesi verso domini superiori, che si proiettino in catartiche visioni, di cui si fa protagonista, ma anche pacificatore e conciliatore. In questo contesto s'inserisce l'homo novus che deve fare i conti con la solitudine, con i contraccolpi, le inadeguatezze della vicenda umana. depauperata da ogni riferimento idealistico: ma:“Risorgeremo dalla bufera cosmica” afferma il poeta. Un linguaggio poetico chiaro e forte senza arzigogoli né sfumature oscure, che si fanno carico di voler individuare le ragioni del dissenso e farsene interprete con grande saggezza. Fa da sfondo alla raccolta una fede non urlata, ma palese, non ecclesiale nè ecumenica, ma generatrice di un pensiero dell'oltre che s'identifichi con la coscienza e il Nosthos: “E’ un fuoco di terra il mio dio...” Un canto visionario che mostra tutta la sua asciuttezza nel mettere in gioco il pensiero del bene, e tentarne l'armonia tra il terreno e il divino: “E sono io Caino, io Abele/ io l’angelo e il diavolo di me stesso”. In molti testi si ha esempio della potenza e del fascino di questa poetica. Si alternano emozioni tenere e suggestioni garbate che sconfinano in percezioni emotive molto intense:”E il vento accende il mattino/.../ s’allaga l’amore a macchia d’olio.” L'abilità del poeta sta concentrata nel suo modus espressivo, in quel suo sapiente miscelare illusioni e delusioni, in quel rapportarsi ai chiaroscuri della vita che si servono di ingredienti di contrasto per indebolire la luce che orienta verso l’alto, verso un “oltre” che è uno status coscienziale di verità che ci trascende e ci salva, come in questi bellissimi versi: “Ci sono gioie nascoste/ in questo autunno stregato.”. Milano, novembre 2011 Ninnj Di Stefano Busà