Prefazione a: L'arto fantasma di Ninnj Di Stefano Busà,
Ed. Lineacultura, 2005
a cura di Giovanni Raboni
Gentile Signora, conoscevo già la Sua poesia per averla avuta in lettura dall’amico comune Attilio Bertolucci che già l’apprezzava da lunghi anni. Di primo acchito, mi aveva sorpreso il tratto sicuro e lo stile limpido e appassionato: una voce che ha nel suo sfondo il mistero della parola fuori dalla routine e qualche rovello nel cogliere i soprassalti di memoria nei ricorrenti motivi che ne esprimono forme intelligenti, smaliziata strategia di linguaggio. Sin dagli esordi, la Sua poesia mi pare rientri in un filone di modernismo moderato, senza arbitrarie oscillazioni nelle quali è facile smarrirsi. Rare volte, devo ammettere, capita di leggere poeti di una certa struttura, e la sua poetica – se mi consente – è poesia dal profondo. Vi è un’autentica vocazione che la determina, come un flusso magmatico che fuoriesce dalle viscere della terra e scopre la vena inesauribile del territorio, lo scava, lo trasforma in panorami in cui è riscontrabile la traccia del passaggio di lava incandescente. La coscienza, pur sofferente, non si esime dal cercare quei brandelli di luce, di verità cui anela, forse per redimerli dalla finitudine terrestre o dalla condizione di naufragio, o che altro non so, Le abbia maturato in seno la malinconia dell’assenza, dell’innocenza violata o mutilata da un protocollo esistenziale di profondo disagio.
Nel conoscerLa più da vicino, al Premio “Penisola Sorrentina”, in occasione del conferimento alla mia persona del premio per l’edito Tutte le poesie (Mondadori), nel quale Lei era componente dell’autorevole giuria, mi sono trovato dinanzi un poeta-donna di rare capacità, non il monumento di poesia privo di matrici ideologiche o aspirazioni. Lei mi è parsa, da subito, una garanzia contro l’occasionale raffazzonamento, una chiara testimonianza di come si possa fare poesia con l’eredità privatissima di un patrimonio di interessi intatto, di intelligenza, di umanità e nel cui ordine di scrittura risaltano e splendono di luce propria le marcate unità di fondo, che sono nell’ordine: lo stile, la novità di un modernismo non aberrante, non raggelato o afflitto da spettrale figurativismo né minimalismo che ne denuncino il disabitato conflitto coi significati interiori più spirituali. La matrice mediterranea che integra un linguaggio quasi unico nel diorama odierno (in fatto di donne poetesse), mi pare non abbia gran bisogno di necessari avalli o testimonianze ulteriori. La sua poesia è scevra dall’assillo riformista ad ogni costo, dall’inerzia fuorviante senza capacità riflessive, dalla difficile impresa di dover rappresentare alcunché; credo che a nessun’altra allusività e necessità essa voglia mirare, se non a quella della Sua voce attenta a non spargere inchiostro di sregolatezza e stravaganza in episodi di scardinamento della poesia stessa.
Attraverso la filigrana autobiografica, l’incidenza delle suggestioni è offerta con la dovuta moderazione, fuori da iperbole, incline alla metafora, senza mai debordare o uscire dal solco di una perfetta misura di fughe e di ritorni; si va quasi a saldare a quella linea immaginaria tra il reale e il sogno, tra l’unità dei temi vita-morte e il nichilismo, che sono in definitiva l’assillo e il referente mancati di tanta poesia al femminile. Lei si dibatte in un limpido assolo fra i drammi privati e quelli più universali che fanno il consuntivo di una sperimentazione in limine di ottimo livello. Vi sono nei Suoi versi varie sfaccettature, che a misura di forti assenze, ingenerano uno stupefacente stupore (me lo lasci dire). Ma quel che trovo interessante è come i grandissimi vuoti dell’anima non vengano intrinsicamente violati dalle condizioni germinali di disagio, che riescono ad incarnarsi con naturalezza a quella sorta di imprendibile felicità negata, e ad esse si richiamino: l’accento, il contrappunto, la matrice e il significato della Sua scrittura. E in questa direzione, suppongo, Lei stia trovando il più grande apprezzamento nel rapportarsi ad un pubblico più vasto, oltre che a una critica più esigente, ottenendone l’attenzione e l’ascolto che merita. Una stratificazione profonda fatta di malinconie, maturata -a mio parere- al fuoco del distacco, come ebbe a sostenere Antonio Piromalli nell’interessante prefazione al Suo L’aire de Broca (1993), nel quale la nostalgia dei sensi che diventano sbiancati e in cui si era scesi in solem et pulverem la fa da padrona sul dramma inquietante delle occasioni mancate. Vi è in questa Sua «parola» modulata, permanente e anche lenitiva che si adegua ai mutamenti e alle attese che cadono, finché si giunge all’ assenza, a un’altra estraneazione, a un’altra lucidità ragionata, coinvolgenti e ben salde, come in questo Suo: “un’altra stagione germina | il tempo, senza filigrane”. Appaiono sfumature, ma si tratta di concetti più sottili per esprimere nelle ultime grandi liriche la perdita dei sogni e il “sorriso che sfuma”. Alcune poesie toccano vertici davvero alti, il senso sacro dei valori umani sembra tradursi in sofisticati meccanismi di relatività, dentro i quali la parola resta ammutolita o tronca e ove impianta le sue nullificanti ipotesi l’istanza oggettiva di quell’assenteismo, assediante che si manifesta in immagini diffrante, in nostalgia dell’incompiuto, nell’inadeguatezza che incombono in figure trasparenti, quasi evanescenti, o sul punto di scomparire, tranne in seguito, scoprirsi esiliate e defraudate da lacerazioni, da escoriazioni che sono sempre pronte a ferire. Il Suo maestro è Montale (se mi consente di fare un paragone di affinità elettiva), la Sua stagione aulente è la fanciullezza, il Suo momento fecondo ristà nella convinzione necessaria del distacco dalle cose materiali, un’atarassia che consente una memoria malinconica di fondo, con le sue crepe, i suoi malesseri, le cadute inevitabili in cui la dialettica si fa serrata e il limite estremo è valicabile nell’ottica di un coinvolgimento pensoso, pur se l’occasione può apparire un trobar clus ostinato per tutto ciò che in modo persistente condanna al buio isolamento, in questo deserto di oscurità che è il mondo. Un male di vivere di montaliana memoria che però trova il suo estuario nel deflusso di una parola amata, cercata e sofferta fin nelle più intime pieghe, attraverso una fede che l’assolva:”oggi è tanto se il giorno smaglia rughe. | E’ qui che a fiotti ti rapina la morte, | qui è il tempo del piombo e della rosa.” (Il senso è altro). Mi pare che vi sia infine in questa Sua ultima raccolta di versi, la padronanza di un verso fatto a misura di crudezza-nudità non esibita fino in fondo, ma che fa la differenza, per quel grado superiore di trovare un esito di minor turbamento nel clima dell’irregolarità poetica di oggi, fatta di «ipernovità» che stravolgono certi ismi. Un certo equilibrio si nota nella Sua poesia ed è quel ritorno alle regole, al linguaggio convenzionale, naturalmente rinnovato e reso nella sua fluttualità etimologico-innovativa del post-moderno, che ridiventa necessità di proporzioni, di bilanciamento, di forza; parola che traduce la progettualità armonica, senza rimanere vittima dell’eccessiva sintomatologia un po’ maldestra di certa avanguardia. Scorrendo i Suoi versi si ha l’impressione di trovarsi in un clima diverso, quasi di sospensione fra la ragione dello strazio e il suo superamento. Una tensione che oppone la necessaria resistenza al male del mondo, e che Lei rende con estremo controllo, scalpellando qua e là gli accenti più traumatici della Sua vicenda privata, e in ciò ravvedo il dominio artistico e il sapore dolceamaro dell’esistente nella dimensione pragmatica del quotidiano.
Proprio sul terreno sintattico che in quello d’ordine tecnico-espressivo, la Sua poetica risulta autonoma, sebbene inerisca, pur con le dovute incidenze, ad aspetti e suggestioni della poesia meridionale del Novecento. In queste geometrie di pensiero emergono i temi di fondo di gran parte del malessere contemporaneo, in una sorta di saggezza occhiuta e ironica che guarda dal palcoscenico della vita, la stessa fuggire, dileguarsi, a cominciare dalla poesia alta, che passa da Quasimodo, Cardarelli, Gatto etc. Si tratta quasi sempre di indagini e letture rigorose (ri)visitate da una coinvolgenza che da innocente diventa oculata, smaliziata, in una dimensione di error aequivocus ineluttabile, o del declino di un immaginario che in cambio presti la parola al suo sgnificato più autentico. Lei ha saputo inserirsi in un progetto di sperimentazioni multiple senza perdere di vista la regolarità cantabile che Le è congeniale; l’orchestrazione armonica del dettato le è necessaria a riconvertire il fattore primario del Suo estro creativo in segno unitario della ragione pensante, senza nulla togliere al criterio discernitivo dell’interno scavo psicologico. Pur nella frattura più o meno palpabile della dissipazione o del dolore, il Suo pudore è fatto salvo dalla libertà del cuore, che pervade il silenzio e ne fa vibrare i pensieri, le emozioni. Quell’ assenza di cui è permeata la Sua pagina non è disertificazione o estinzione , interloquisce nell’ordine degli eventi a una rara e impalpabile relatività di rango che è la poesia. Ne consegue una personalità evidente, una consumata estraneità alla condivisione di stilemi arbitrari di certa letteratura dell’ultima ora, che danno al suo linguaggio lirico la bellezza e l’eleganza del processo da Lei già avviato, che è l’avvenire irrinunciabile della palingenesi della vita.
Ed. Lineacultura, 2005
a cura di Giovanni Raboni
Gentile Signora, conoscevo già la Sua poesia per averla avuta in lettura dall’amico comune Attilio Bertolucci che già l’apprezzava da lunghi anni. Di primo acchito, mi aveva sorpreso il tratto sicuro e lo stile limpido e appassionato: una voce che ha nel suo sfondo il mistero della parola fuori dalla routine e qualche rovello nel cogliere i soprassalti di memoria nei ricorrenti motivi che ne esprimono forme intelligenti, smaliziata strategia di linguaggio. Sin dagli esordi, la Sua poesia mi pare rientri in un filone di modernismo moderato, senza arbitrarie oscillazioni nelle quali è facile smarrirsi. Rare volte, devo ammettere, capita di leggere poeti di una certa struttura, e la sua poetica – se mi consente – è poesia dal profondo. Vi è un’autentica vocazione che la determina, come un flusso magmatico che fuoriesce dalle viscere della terra e scopre la vena inesauribile del territorio, lo scava, lo trasforma in panorami in cui è riscontrabile la traccia del passaggio di lava incandescente. La coscienza, pur sofferente, non si esime dal cercare quei brandelli di luce, di verità cui anela, forse per redimerli dalla finitudine terrestre o dalla condizione di naufragio, o che altro non so, Le abbia maturato in seno la malinconia dell’assenza, dell’innocenza violata o mutilata da un protocollo esistenziale di profondo disagio.
Nel conoscerLa più da vicino, al Premio “Penisola Sorrentina”, in occasione del conferimento alla mia persona del premio per l’edito Tutte le poesie (Mondadori), nel quale Lei era componente dell’autorevole giuria, mi sono trovato dinanzi un poeta-donna di rare capacità, non il monumento di poesia privo di matrici ideologiche o aspirazioni. Lei mi è parsa, da subito, una garanzia contro l’occasionale raffazzonamento, una chiara testimonianza di come si possa fare poesia con l’eredità privatissima di un patrimonio di interessi intatto, di intelligenza, di umanità e nel cui ordine di scrittura risaltano e splendono di luce propria le marcate unità di fondo, che sono nell’ordine: lo stile, la novità di un modernismo non aberrante, non raggelato o afflitto da spettrale figurativismo né minimalismo che ne denuncino il disabitato conflitto coi significati interiori più spirituali. La matrice mediterranea che integra un linguaggio quasi unico nel diorama odierno (in fatto di donne poetesse), mi pare non abbia gran bisogno di necessari avalli o testimonianze ulteriori. La sua poesia è scevra dall’assillo riformista ad ogni costo, dall’inerzia fuorviante senza capacità riflessive, dalla difficile impresa di dover rappresentare alcunché; credo che a nessun’altra allusività e necessità essa voglia mirare, se non a quella della Sua voce attenta a non spargere inchiostro di sregolatezza e stravaganza in episodi di scardinamento della poesia stessa.
Attraverso la filigrana autobiografica, l’incidenza delle suggestioni è offerta con la dovuta moderazione, fuori da iperbole, incline alla metafora, senza mai debordare o uscire dal solco di una perfetta misura di fughe e di ritorni; si va quasi a saldare a quella linea immaginaria tra il reale e il sogno, tra l’unità dei temi vita-morte e il nichilismo, che sono in definitiva l’assillo e il referente mancati di tanta poesia al femminile. Lei si dibatte in un limpido assolo fra i drammi privati e quelli più universali che fanno il consuntivo di una sperimentazione in limine di ottimo livello. Vi sono nei Suoi versi varie sfaccettature, che a misura di forti assenze, ingenerano uno stupefacente stupore (me lo lasci dire). Ma quel che trovo interessante è come i grandissimi vuoti dell’anima non vengano intrinsicamente violati dalle condizioni germinali di disagio, che riescono ad incarnarsi con naturalezza a quella sorta di imprendibile felicità negata, e ad esse si richiamino: l’accento, il contrappunto, la matrice e il significato della Sua scrittura. E in questa direzione, suppongo, Lei stia trovando il più grande apprezzamento nel rapportarsi ad un pubblico più vasto, oltre che a una critica più esigente, ottenendone l’attenzione e l’ascolto che merita. Una stratificazione profonda fatta di malinconie, maturata -a mio parere- al fuoco del distacco, come ebbe a sostenere Antonio Piromalli nell’interessante prefazione al Suo L’aire de Broca (1993), nel quale la nostalgia dei sensi che diventano sbiancati e in cui si era scesi in solem et pulverem la fa da padrona sul dramma inquietante delle occasioni mancate. Vi è in questa Sua «parola» modulata, permanente e anche lenitiva che si adegua ai mutamenti e alle attese che cadono, finché si giunge all’ assenza, a un’altra estraneazione, a un’altra lucidità ragionata, coinvolgenti e ben salde, come in questo Suo: “un’altra stagione germina | il tempo, senza filigrane”. Appaiono sfumature, ma si tratta di concetti più sottili per esprimere nelle ultime grandi liriche la perdita dei sogni e il “sorriso che sfuma”. Alcune poesie toccano vertici davvero alti, il senso sacro dei valori umani sembra tradursi in sofisticati meccanismi di relatività, dentro i quali la parola resta ammutolita o tronca e ove impianta le sue nullificanti ipotesi l’istanza oggettiva di quell’assenteismo, assediante che si manifesta in immagini diffrante, in nostalgia dell’incompiuto, nell’inadeguatezza che incombono in figure trasparenti, quasi evanescenti, o sul punto di scomparire, tranne in seguito, scoprirsi esiliate e defraudate da lacerazioni, da escoriazioni che sono sempre pronte a ferire. Il Suo maestro è Montale (se mi consente di fare un paragone di affinità elettiva), la Sua stagione aulente è la fanciullezza, il Suo momento fecondo ristà nella convinzione necessaria del distacco dalle cose materiali, un’atarassia che consente una memoria malinconica di fondo, con le sue crepe, i suoi malesseri, le cadute inevitabili in cui la dialettica si fa serrata e il limite estremo è valicabile nell’ottica di un coinvolgimento pensoso, pur se l’occasione può apparire un trobar clus ostinato per tutto ciò che in modo persistente condanna al buio isolamento, in questo deserto di oscurità che è il mondo. Un male di vivere di montaliana memoria che però trova il suo estuario nel deflusso di una parola amata, cercata e sofferta fin nelle più intime pieghe, attraverso una fede che l’assolva:”oggi è tanto se il giorno smaglia rughe. | E’ qui che a fiotti ti rapina la morte, | qui è il tempo del piombo e della rosa.” (Il senso è altro). Mi pare che vi sia infine in questa Sua ultima raccolta di versi, la padronanza di un verso fatto a misura di crudezza-nudità non esibita fino in fondo, ma che fa la differenza, per quel grado superiore di trovare un esito di minor turbamento nel clima dell’irregolarità poetica di oggi, fatta di «ipernovità» che stravolgono certi ismi. Un certo equilibrio si nota nella Sua poesia ed è quel ritorno alle regole, al linguaggio convenzionale, naturalmente rinnovato e reso nella sua fluttualità etimologico-innovativa del post-moderno, che ridiventa necessità di proporzioni, di bilanciamento, di forza; parola che traduce la progettualità armonica, senza rimanere vittima dell’eccessiva sintomatologia un po’ maldestra di certa avanguardia. Scorrendo i Suoi versi si ha l’impressione di trovarsi in un clima diverso, quasi di sospensione fra la ragione dello strazio e il suo superamento. Una tensione che oppone la necessaria resistenza al male del mondo, e che Lei rende con estremo controllo, scalpellando qua e là gli accenti più traumatici della Sua vicenda privata, e in ciò ravvedo il dominio artistico e il sapore dolceamaro dell’esistente nella dimensione pragmatica del quotidiano.
Proprio sul terreno sintattico che in quello d’ordine tecnico-espressivo, la Sua poetica risulta autonoma, sebbene inerisca, pur con le dovute incidenze, ad aspetti e suggestioni della poesia meridionale del Novecento. In queste geometrie di pensiero emergono i temi di fondo di gran parte del malessere contemporaneo, in una sorta di saggezza occhiuta e ironica che guarda dal palcoscenico della vita, la stessa fuggire, dileguarsi, a cominciare dalla poesia alta, che passa da Quasimodo, Cardarelli, Gatto etc. Si tratta quasi sempre di indagini e letture rigorose (ri)visitate da una coinvolgenza che da innocente diventa oculata, smaliziata, in una dimensione di error aequivocus ineluttabile, o del declino di un immaginario che in cambio presti la parola al suo sgnificato più autentico. Lei ha saputo inserirsi in un progetto di sperimentazioni multiple senza perdere di vista la regolarità cantabile che Le è congeniale; l’orchestrazione armonica del dettato le è necessaria a riconvertire il fattore primario del Suo estro creativo in segno unitario della ragione pensante, senza nulla togliere al criterio discernitivo dell’interno scavo psicologico. Pur nella frattura più o meno palpabile della dissipazione o del dolore, il Suo pudore è fatto salvo dalla libertà del cuore, che pervade il silenzio e ne fa vibrare i pensieri, le emozioni. Quell’ assenza di cui è permeata la Sua pagina non è disertificazione o estinzione , interloquisce nell’ordine degli eventi a una rara e impalpabile relatività di rango che è la poesia. Ne consegue una personalità evidente, una consumata estraneità alla condivisione di stilemi arbitrari di certa letteratura dell’ultima ora, che danno al suo linguaggio lirico la bellezza e l’eleganza del processo da Lei già avviato, che è l’avvenire irrinunciabile della palingenesi della vita.