Franco Loi e la contaminatio linguistica della sua dialettica
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Franco Loi nasce a Genova nel 1930. Ma trasferitosi a Milano apprende quasi interamente la cultura e il dialetto lombardi, tanto da farne la sua lingua d’eccellenza, soprattutto, aderisce ad una contaminatio che lo avvicina molto ai dialetti dell’interland e dell’area metropolitana. La Storia privata di Franco Loi è di quella proletaria e contadina.
Lo stesso, prima di giungere a livelli alti della Poesia e della Critica Letteratura, ha fatto lavori diversi, adatti alla necessità del sopravvivere, quali il ceramista, l’operaio, il portuale. Lavori umili che gli daranno da vivere in un momento in cui la vita del nostro paese era difficile: intrecciata a flussi migratori che il dopoguerra aveva reso necessari per la sopravvivenza di molte famiglie. In Franco Loi, la voce dell’intelletto pensante e della Poesia hanno avuto il sopravvento, riuscendo a penetrare e a superare con un ampio balzo in avanti la caratterizzazione essenziale del momento storico che era lo «sperimentalismo», proponendosi in maniera molto equilibrata ad un lirismo dalle limpide interpretazioni e dalle linee e dai toni più vicini ad una scrittura personalizzata, che gli hanno valso la notorietà e il giudizio positivi della critica che conta.
Egli si può dire appartenga al periodo storico della sperimentazione, in auge fra il ‘50 e il ‘60, perché vi rientra come secolarizzazione, come sostrato culturale, come linea di orientamento, ma non gli si attaglia, non ne apprende né comprende le punte acuminate che in quel periodo storico e letterario facevano grandi proseliti. Si può ben dire che riformula la sua letterarietà in una peculiare struttura ricercatamente altra, dal contesto personalizzato, che resterà una sigla specificatamente sua e soltanto sua.
La sua dimensione culturale lo fa rientrare in un filone a sé che è soprattutto rielaborazione di un agile e spigliato idioma lombardo e dell’interland, che assiste al disagio sociale della classe operaia e dell’ambiente rurale.
Una via di mezzo, tra la saggezza popolaresca e la fedeltà alle tradizioni, agli stereotipi di una visione di vita che, anche se obsoleta, sa ancora dare pillole di grande morale, di attaccamento alla famiglia, ai valori della vita, ai mestieri che vanno tramontando, ma sempre ben orientati al patrimonio umano dei grandi sentimenti, intriso a quelle rarefatte ma non decadute usanze del passato.
Quella di Franco Loi è una scrittura fatta di tutti questi felici raccordi sullo sfondo di un’ironia bonaria tendente a pulsioni di carattere sociale, «conservativa» dell’oggetto popolare e della storia umanistica dei popoli. Quindi, si può affermare che in un periodo che è di cesura tra il decrescente sperimentalismo non ancora obsoleto, ma che si va stemperando, (immettendosi nel ciclo letterario delle avanguardie), egli si collochi come l’artefice di una poesia che affascina per la diversità, e lo impone autonomamente, senza frange di riferimento, senza matrici di appartenenza subiect.
La sua scrittura ha superato la ventata sperimentalista e si è autereferenziata ad un nuovo modello linguistico popolare, di gran lunga carico di quelle espressioni che costituiscono il discrimine e il superamento delle aree linguistiche e culturali sessantottine, nelle cui spire non è mai rimasto invischiato.
Il suo esercizio di scrittura ha inizio con bellissime raccolte che gli riservano i primi approcci con la Critica autorevole di Franco Fortini, che lo incoraggia e lo avvia a pubblicazioni di grande levatura come Strolegh, e poi Angel, Liber, etc.
Inizia ad essere vincitore di molti premi di prestigio e ad essere conosciuto come uno dei massimi rappresentanti della Poesia dialettale. Il suo esercizio poetico si conforma ad un modello che parte dalla memoria e giunge fino alla dimensione reale del racconto lirico, in una Milano che versa al sociale il suo contributo umano fatto di mestieri, di sentimenti, di presenze, di massime, di personaggi, di sentenze, di chiuse di saggezza, di gocce di buonsenso del mondo popolare e operaio.
Franco Loi trasferisce in poesia come in un palcoscenico, tutte le sfumature, gli idiomi, le parlate, le espressioni di una lingua “impura” (dialetti), ma li scioglie dalla pesantezza e goffaggine locali, ne fa un virtuale concerto che riposa senza celebrazione, né impaccio in una felice e tenera ispirazione personalistica, ed è in questa particolare visionarietà che si muove, in un primo momento la sua scrittura, fatta di linguismo variegato e di un’onda tecnica dell’espressione che si allineano alla “piece” di teatro. E in tale direzione viene sempre più apprezzato, fino a giungere a opere mature dal lato stilistico e semantico.
L’autore, (ancor più che alla poesia), in un primo tempo, aveva rivolto la sua produzione e il suo interesse al teatro. Una delle sue maggiori opere l’Angel (‘94) ottenne anche un adattamento per le scene, e nella forma dialettale si conferma come una delle migliori e più riuscite opere dell’Autore: una via di mezzo, dunque tra una forte e disinvolta spigliatezza lessicale che egli sapientemente trasferisce alla profondità dei sentimenti, alla fedeltà alle antiche usanze sullo sfondo di un’ironia che, sa intravedere la luce serena che emana dalla saggezza, dalla speranza pura e semplice, come si addice ad un poeta del suo rango.
Una lingua idiomatica la sua che si avvale di populismo reale, senza nulla di folklotistico, frutto di un’immaginazione individuale eclettica che va oltre le forme classicheggianti, in un suo vitalismo immaginifico che è, sì, carne e sangue popolare, ma anche visione del mondo; tragicomica dimensione di una letterarietà che tiene. Tuttavia, pur trattandosi di un romanzo in versi (quindi prosa poetica), riesce a rappresentare una tale riflessione, una tale carica emotivo/storica/culturale/ambientale da porsi essenzialmente come opera lirica.
I suoi più grandi critici come Dante Isella, Franco Fortini e successivamente Maurizio Cucchi, Davide Rondoni lo evidenziano come uno dei maggiori poeti dialettali degli ultimi tempi, uno dei più validi e riconosciuti esponenti di quest’ultimo scorcio di secolo. Franco Loi è in cima alle classifiche con le opere che diverranno punti fermi, autoreferenziali per il seguito della sua produzione. Fra queste opere vanno almeno annoverate: Angel, Strolegh, Teater, Liber etc. Ma, sono tante e numerose le altre opere pubblicate dall’autore che hanno avuto validi riconoscimenti a livello nazionale.
La sua voce che risente l’influsso di un’immagine fresca, ironica, semplice e popolare è di grande impatto e si identifica a un rilevante e personalissimo livello artistico e culturale, perché porta in sé l’eco spontanea di una bellezza che si fa voce del mondo, ironia bonaria e non menzognera, non artificiosa, mai arzigogolata, né studiata a tavolino, molto votata al sociale, versatile, ironica, variegata, intessuta di tutti quegli umori, sapori, profumi,codificati dalla realtà quotidiana, tra disincanto e fatalità, tra occasione e consuetudine che si piegano a un registro lirico accattivante, intrigante per le innumerevoli interpretazioni e trame che intervengono nell’intermediazione fra la lingua e i diletti: incroci stilistici capaci di un espressivismo autoctono che lo distingue. Proprio come è negli umili, egli riesce a leggere all’interno del loro stupore, della dolcezza, della semplicità d’animo di chi sa dire: “Ho una canzone nel cuore e so cantare” oppure: “Non so /.../ cosa sia questa gioia che mi fa piangere”. La sua poesia piace, perché mette il lettore nelle condizioni di capire il mondo semplice e spiccatamente ricco di quell’alone lirico che si addice ai puri, alla gente laboriosa, alla condizione modesta, ma grande, del mondo popolare, che avverte la poesia come un dono dal cielo e la riformula tutti i giorni con il vigore e la forza del mestiere, con il pudore e la riservatezza di una preghiera che è l’energia del mondo, un mondo semplice e schietto, che manifesta in definitiva la forza cosmica più inesauribile ed eterna.
Visione del popolo che istruisce antropologicamente il mondo in cui vive. Così come idioletti, modi di dire, espressioni gergali: dure a morire, perché conservati gelosamente nello scrigno animistico della tradizione prendono il via e si connettono ad una conservazione lessicale che li mantiene inalterati.
Loi li trasferisce e li rimodula all’insegna della sua privatissima ispirazione, riuscendo a mantenerne inalterata la struttura di fondo cantabile, che è quella di non perdere o destabilizzare il reale quotidiano che non cambia coi tempi e le mode.
Una frase di Franco Loi mi rimane scolpita nel cuore e per me resta immortale. Da grande poeta quale è, Loi ha dichiarato con semplicità e pudore: “La poesia, in fondo, è il dire ciò che è impossibile”.
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
Franco Loi nasce a Genova nel 1930. Ma trasferitosi a Milano apprende quasi interamente la cultura e il dialetto lombardi, tanto da farne la sua lingua d’eccellenza, soprattutto, aderisce ad una contaminatio che lo avvicina molto ai dialetti dell’interland e dell’area metropolitana. La Storia privata di Franco Loi è di quella proletaria e contadina.
Lo stesso, prima di giungere a livelli alti della Poesia e della Critica Letteratura, ha fatto lavori diversi, adatti alla necessità del sopravvivere, quali il ceramista, l’operaio, il portuale. Lavori umili che gli daranno da vivere in un momento in cui la vita del nostro paese era difficile: intrecciata a flussi migratori che il dopoguerra aveva reso necessari per la sopravvivenza di molte famiglie. In Franco Loi, la voce dell’intelletto pensante e della Poesia hanno avuto il sopravvento, riuscendo a penetrare e a superare con un ampio balzo in avanti la caratterizzazione essenziale del momento storico che era lo «sperimentalismo», proponendosi in maniera molto equilibrata ad un lirismo dalle limpide interpretazioni e dalle linee e dai toni più vicini ad una scrittura personalizzata, che gli hanno valso la notorietà e il giudizio positivi della critica che conta.
Egli si può dire appartenga al periodo storico della sperimentazione, in auge fra il ‘50 e il ‘60, perché vi rientra come secolarizzazione, come sostrato culturale, come linea di orientamento, ma non gli si attaglia, non ne apprende né comprende le punte acuminate che in quel periodo storico e letterario facevano grandi proseliti. Si può ben dire che riformula la sua letterarietà in una peculiare struttura ricercatamente altra, dal contesto personalizzato, che resterà una sigla specificatamente sua e soltanto sua.
La sua dimensione culturale lo fa rientrare in un filone a sé che è soprattutto rielaborazione di un agile e spigliato idioma lombardo e dell’interland, che assiste al disagio sociale della classe operaia e dell’ambiente rurale.
Una via di mezzo, tra la saggezza popolaresca e la fedeltà alle tradizioni, agli stereotipi di una visione di vita che, anche se obsoleta, sa ancora dare pillole di grande morale, di attaccamento alla famiglia, ai valori della vita, ai mestieri che vanno tramontando, ma sempre ben orientati al patrimonio umano dei grandi sentimenti, intriso a quelle rarefatte ma non decadute usanze del passato.
Quella di Franco Loi è una scrittura fatta di tutti questi felici raccordi sullo sfondo di un’ironia bonaria tendente a pulsioni di carattere sociale, «conservativa» dell’oggetto popolare e della storia umanistica dei popoli. Quindi, si può affermare che in un periodo che è di cesura tra il decrescente sperimentalismo non ancora obsoleto, ma che si va stemperando, (immettendosi nel ciclo letterario delle avanguardie), egli si collochi come l’artefice di una poesia che affascina per la diversità, e lo impone autonomamente, senza frange di riferimento, senza matrici di appartenenza subiect.
La sua scrittura ha superato la ventata sperimentalista e si è autereferenziata ad un nuovo modello linguistico popolare, di gran lunga carico di quelle espressioni che costituiscono il discrimine e il superamento delle aree linguistiche e culturali sessantottine, nelle cui spire non è mai rimasto invischiato.
Il suo esercizio di scrittura ha inizio con bellissime raccolte che gli riservano i primi approcci con la Critica autorevole di Franco Fortini, che lo incoraggia e lo avvia a pubblicazioni di grande levatura come Strolegh, e poi Angel, Liber, etc.
Inizia ad essere vincitore di molti premi di prestigio e ad essere conosciuto come uno dei massimi rappresentanti della Poesia dialettale. Il suo esercizio poetico si conforma ad un modello che parte dalla memoria e giunge fino alla dimensione reale del racconto lirico, in una Milano che versa al sociale il suo contributo umano fatto di mestieri, di sentimenti, di presenze, di massime, di personaggi, di sentenze, di chiuse di saggezza, di gocce di buonsenso del mondo popolare e operaio.
Franco Loi trasferisce in poesia come in un palcoscenico, tutte le sfumature, gli idiomi, le parlate, le espressioni di una lingua “impura” (dialetti), ma li scioglie dalla pesantezza e goffaggine locali, ne fa un virtuale concerto che riposa senza celebrazione, né impaccio in una felice e tenera ispirazione personalistica, ed è in questa particolare visionarietà che si muove, in un primo momento la sua scrittura, fatta di linguismo variegato e di un’onda tecnica dell’espressione che si allineano alla “piece” di teatro. E in tale direzione viene sempre più apprezzato, fino a giungere a opere mature dal lato stilistico e semantico.
L’autore, (ancor più che alla poesia), in un primo tempo, aveva rivolto la sua produzione e il suo interesse al teatro. Una delle sue maggiori opere l’Angel (‘94) ottenne anche un adattamento per le scene, e nella forma dialettale si conferma come una delle migliori e più riuscite opere dell’Autore: una via di mezzo, dunque tra una forte e disinvolta spigliatezza lessicale che egli sapientemente trasferisce alla profondità dei sentimenti, alla fedeltà alle antiche usanze sullo sfondo di un’ironia che, sa intravedere la luce serena che emana dalla saggezza, dalla speranza pura e semplice, come si addice ad un poeta del suo rango.
Una lingua idiomatica la sua che si avvale di populismo reale, senza nulla di folklotistico, frutto di un’immaginazione individuale eclettica che va oltre le forme classicheggianti, in un suo vitalismo immaginifico che è, sì, carne e sangue popolare, ma anche visione del mondo; tragicomica dimensione di una letterarietà che tiene. Tuttavia, pur trattandosi di un romanzo in versi (quindi prosa poetica), riesce a rappresentare una tale riflessione, una tale carica emotivo/storica/culturale/ambientale da porsi essenzialmente come opera lirica.
I suoi più grandi critici come Dante Isella, Franco Fortini e successivamente Maurizio Cucchi, Davide Rondoni lo evidenziano come uno dei maggiori poeti dialettali degli ultimi tempi, uno dei più validi e riconosciuti esponenti di quest’ultimo scorcio di secolo. Franco Loi è in cima alle classifiche con le opere che diverranno punti fermi, autoreferenziali per il seguito della sua produzione. Fra queste opere vanno almeno annoverate: Angel, Strolegh, Teater, Liber etc. Ma, sono tante e numerose le altre opere pubblicate dall’autore che hanno avuto validi riconoscimenti a livello nazionale.
La sua voce che risente l’influsso di un’immagine fresca, ironica, semplice e popolare è di grande impatto e si identifica a un rilevante e personalissimo livello artistico e culturale, perché porta in sé l’eco spontanea di una bellezza che si fa voce del mondo, ironia bonaria e non menzognera, non artificiosa, mai arzigogolata, né studiata a tavolino, molto votata al sociale, versatile, ironica, variegata, intessuta di tutti quegli umori, sapori, profumi,codificati dalla realtà quotidiana, tra disincanto e fatalità, tra occasione e consuetudine che si piegano a un registro lirico accattivante, intrigante per le innumerevoli interpretazioni e trame che intervengono nell’intermediazione fra la lingua e i diletti: incroci stilistici capaci di un espressivismo autoctono che lo distingue. Proprio come è negli umili, egli riesce a leggere all’interno del loro stupore, della dolcezza, della semplicità d’animo di chi sa dire: “Ho una canzone nel cuore e so cantare” oppure: “Non so /.../ cosa sia questa gioia che mi fa piangere”. La sua poesia piace, perché mette il lettore nelle condizioni di capire il mondo semplice e spiccatamente ricco di quell’alone lirico che si addice ai puri, alla gente laboriosa, alla condizione modesta, ma grande, del mondo popolare, che avverte la poesia come un dono dal cielo e la riformula tutti i giorni con il vigore e la forza del mestiere, con il pudore e la riservatezza di una preghiera che è l’energia del mondo, un mondo semplice e schietto, che manifesta in definitiva la forza cosmica più inesauribile ed eterna.
Visione del popolo che istruisce antropologicamente il mondo in cui vive. Così come idioletti, modi di dire, espressioni gergali: dure a morire, perché conservati gelosamente nello scrigno animistico della tradizione prendono il via e si connettono ad una conservazione lessicale che li mantiene inalterati.
Loi li trasferisce e li rimodula all’insegna della sua privatissima ispirazione, riuscendo a mantenerne inalterata la struttura di fondo cantabile, che è quella di non perdere o destabilizzare il reale quotidiano che non cambia coi tempi e le mode.
Una frase di Franco Loi mi rimane scolpita nel cuore e per me resta immortale. Da grande poeta quale è, Loi ha dichiarato con semplicità e pudore: “La poesia, in fondo, è il dire ciò che è impossibile”.